Perché la Pa usa ancora il fax? Perché l’innovazione la portano le persone, non (solo) i decreti

Prendo spunto da quanto si è letto sui giornali nelle scorse settimane a proposito dell’emendamento al Decreto del Fare sul divieto per le PA di comunicare con il Fax, a cui sarebbe seguito un ordine del giorno votato dal Parlamento in cui si proroga il divieto al 2015.

Ciò dimostra ancora una volta l’incapacità di innovare da parte della PA, soprattutto quella centrale, e degli enti di grandi dimensioni… Ci si chiederà il perché di questa affermazione, e vedrò di spiegarne le ragioni.

Partirò con un po’ di storia… Infatti, questo discusso emendamento non dovrebbe essere considerato così eclatante, se si sapesse invece che in realtà il pilastro della digitalizzazione è costituito da un insieme di norme che hanno reso obbligatorio il protocollo informatico per tutte le Pubbliche Amministrazioni, a partire dal 1 gennaio 2004… Ebbene sì, parliamo di quasi 10 anni fa!

Il protocollo informatico è il cardine della gestione documentale in un qualsiasi ente pubblico, e permette la gestione complessiva dei documenti informatici (dalla creazione, alla fascicolazione, all’invio/ricezione e fino all’archiviazione): parliamo quindi di file con la firma digitale, inviati e ricevuti con la PEC; quindi già da allora era previsto che tutte le comunicazioni – soprattutto tra Amministrazioni – avvenissero in modo digitale.

Ma, all’italiana maniera, 10 anni sono passati e cosa è cambiato? Praticamente quasi niente, se qualcuno ha ritenuto necessario inserire il divieto di usare in fax proprio in un decreto! Non si può dire che le norme non ci sono, si deve dire invece che non sono applicate, e che non ci sono sanzioni di alcun tipo.

E a questo punto ci si chiederà perché se le regole ci sono non vengono applicate. Ed effettivamente questa è la parte più interessante della storia: infatti, l’innovazione non avviene per legge o per decreto – certo, anche questi aiutano – ma avviene soprattutto con i processi organizzativi e con le persone: sono i responsabili delle Amministrazioni i primi che debbono essere innovatori.

Evidentemente questo invece è un nodo scoperto, perché all’interno di un’organizzazione o non vengono individuate le responsabilità o gli obiettivi che riguardano i processi di innovazione, o comunque non si valutano mai gli effetti positivi dell’innovazione.

Quindi i problemi toccano 2 aspetti cruciali nella gestione delle PA italiane: la valutazione dei progetti e dei dirigenti – la cosiddetta meritocrazia, mai decollata, nonostante i tentativi fatti con le riforme del ministro Brunetta – e la totale assenza di un metodo di valutazione sulle politiche di innovazione: cioè, se cambio un processo, che vantaggio ottengo? Intendendo sia in termini di risparmio economico che di risorse umane, come invece avviene nel mondo anglosassone, in cui la valutazione di qualsiasi processo di innovazione è un metodo condiviso.

Adesso sarà anche più chiaro perché le difficoltà del cambiamento, come dicevo all’inizio, riguardano soprattutto gli enti di grandi dimensioni: perché la complessità della struttura organizzativa fa sì che se i processi di innovazione non vengono seguiti radicalmente e capillarmente, non si ottiene un risultato tangibile, nella migliore delle ipotesi, oppure le regole formali rimangono lettera morta; a differenza delle organizzazioni di piccole dimensioni, in cui c’è maggiore possibilità di incidere e cambiare i comportamenti e i processi organizzativi.

Esiste una ricetta per trovare una soluzione? Sembrerà anacronistico, ma probabilmente il metodo giusto è trovare la persona al posto giusto e al momento giusto, che lavori su obiettivi chiari e misurabili, e che sia disposta a far crescere le persone della propria organizzazione.

Perché le tecnologie – soprattutto nel caso di organizzazioni complesse – non sono “autoabilitanti”, ma richiedono sempre un processo di penetrazione e assimilazione; la vera innovazione, come abbiamo visto, non avviene per legge o per decreto, ma si fa lavorando fianco a fianco con le persone, per insegnare ad ognuno che esiste un modo diverso di lavorare, e soprattutto che la tecnologia non fa paura!

Leggi il post pubblicato su “Che futuro

 

Nota: Una ricerca condotta da Coleman Parkes Research per conto di Ricoh Europe sulle caratteristiche che deve avere un CIO,  mostra come oltre due terzi (68%) delle organizzazioni europee del settore pubblico non sia pronto per la trasformazione digitale. Infatti, la maggior parte dei dirigenti afferma che il CIO della propria azienda sia pronto per guidare il cambiamento in aree quali la gestione finanziaria, il coinvolgimento dei cittadini e la business intelligence, ma solo il 9% pensa che egli sia in grado di attuare tale cambiamento nell’ambito dei processi.

Inoltre, solo il 29% considera la capacità di gestire il change management come una caratteristica chiave del CIO, mentre la gestione del cambiamento è fondamentale per introdurre nuove modalità operative ed entrare nell’era digitale.

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